Di Laura Lenci
La pianura è un mondo. La pianura che si incontra andando verso la foce del Po è un altro piccolo mondo ancora.
Distese di campi seminati a granturco, il formenton per cui mai e poi mai verrebbero dei visitatori, figuriamoci dei villeggianti! Stradine sterrate quasi fatte apposta per percorrerle in bicicletta si inoltrano in un paesaggio che non smette di dilatarsi, piatto, fino all’orizzonte.
Il Po maestoso a lato, tanto placido quanto minaccioso, eppure attraente verso il Delta, con le sue ramificazioni, le barene, gli isolotti, i casoni nascosti tra i canneti, i gabbiani sulle spiagge della laguna.
E la pianura padana, così diversa nell’aspetto da quella parmense e cremonese, ma pur sempre orizzontale, silenziosa, sfregiata dalla mano dell’uomo, dalla riforma agraria mai realizzata fino in fondo.
Una superficie incisa dai canali di bonifica, vero e proprio reticolato sui latifondi di un glorioso passato veneziano, disperazione dei mezzadri schiavi della miseria e ridotti all’emigrazione. Un alternarsi di stadi climatici mutevoli ma ugualmente opprimenti. L’afa soffocante lascia il posto ad altrettanto malinconiche piogge nell’alternarsi delle stagioni. Le nebbie, le brume al mattino, le foschie opalescenti, caligini che offuscano la vista salendo da quella terra sempre intrisa d’acqua.
Lo sguardo tende a condondersi, come in alcune celebri fotografie di Luigi Ghirri, in un paesaggio che non mostra ondulazioni, mutevole alla diversa luce durante il giorno, immutabile al corso della storia.
Spaccarsi la schiena sulla terra è il destino inesorabile di una vita piatta come la pianura, dove il tempo riempie lo spazio perché non succede mai niente.
Finché non arriva una piena.
Finché non si inciampa in una villa palladiana che spunta così, quasi dal nulla. Bella da spezzare il fiato, bella da far nascere il desiderio. Quello di andar via da lì. Quello di realizzare qualcosa di grande, qualcosa di degno.
A Maria Scapin, protagonista del romanzo di Germana Urbani «Chi se non noi» (Nottetempo, 2021) succede proprio così.
A sette anni, folgorata dalla vista della villa Badoera di Fratta Polesine, decide che diventerà architetto, che lascerà il Polesine, che il suo nome sarà lasciato in eredità ai posteri. Ma non certo per meriti artistici, Maria rischia di essere ricordata, quanto per essere stata sul punto di macchiarsi di iniquità.
In questo romanzo, oltre al paesaggio corporeo che si manifesta in tutta la sua bellezza, ritroviamo i topoi che fanno di un racconto una storia memorabile: l’amore, l’amicizia, la morte, la follia.
E il destino.
Quel dio che interviene in soccorso all’eroe perché ritrovi la metis, quella giusta misura che lo sa trattenere dalla dannazione eterna. Nonostante sia una sensibile e profonda osservatrice, Maria è risucchiata nella terra d’origine da una relazione più spietata dei pesci siluro che infestano il Po.
Come la corrente del grande fiume, il giovane di cui crede di essere innamorata la trascina lentamente, ma inesorabilmente, alla deriva e, rapace, le strappa tutto, i pensieri, la vita, il lavoro, la dignità.
Maria, che da sempre coglie il bello attraverso l’obiettivo fotografico, delicatamente come lo sguardo di Luigi Ghirri, sensibilmente come l’occhio di Gianni Celati, non è invece capace di vedere l’oscurità nella quale è precipitata.
Ma il lettore non può fare a meno di amare questo personaggio, proprio come il paesaggio che ne è l’ombra, perché, come dice Urbani stessa, l’oscurità palpita di vita e nasconde le storie più tremende, quelle che vale la pena di raccontare.
Presentazione del libro “Chi se non noi” di Germana Urbani – 15 aprile 2020