Di Sandra De Bianchi
Vi è mai capitato di sospendere la lettura di un libro che vi sta procurando forti emozioni? A me è successo più volte. Anche con “Il treno dei bambini” di Viola Ardone (Einaudi editore).
Con questo romanzo, a un certo punto, mi sono arrabbiata. Ho dovuto lasciar passare qualche giorno. Ho avuto bisogno di prendere le distanze da quello che leggevo al fine di comprendere meglio i miei sentimenti e quelli dei vari personaggi.
Mi ero ripromessa di non scriverne nemmeno la recensione ma poi, in quel momento di pausa, ho visto “Sacchetto di biglie”: un film di Christian Duguay, storia di due fratelli ebrei francesi che, durante la Shoah, lottano per ritrovare i genitori.
E, tramite un film, ho fatto pace con un libro. Sia nel film di Duguay (tratto a sua volta da un memoir di successo dello scrittore Joseph Joffo che realmente fu un “bambino randagio” in fuga solitaria dai nazisti), sia nel libro della Ardone, uno dei protagonisti della storia è il treno.
Il suo fischio, il suo sferragliare nel film ha magicamente rimesso sulle giuste rotaie il mio desiderio di terminare la lettura del libro. Il treno! Questo rumoroso Moloch che viene temuto da tutti i bambini della prima parte del ‘900. E non senza motivo.
È con un treno (merci, bestiame) che venivano smembrate le famiglie. E’ con i treni che si attuava la deportazione verso i maledetti Campi. Ma con un treno si poteva anche tentare una via di fuga, si poteva sperare di sopravvivere, scappare, nascondersi. E allora di questo treno… cioè, scusate, di questo libro di Viola Ardone che ha il treno già nel titolo provo a parlarvi, superando il blocco di fortissime emozioni che sono legate alla mia memoria.
Dunque, Viola Ardone! Siamo nell’immediato secondo dopoguerra quando, Il Comitato per la Salvezza dei bambini di Napoli (uno dei tanti gruppi comunisti di solidarietà, a quel tempo) realizza un progetto importante: ospitare, curare, nutrire, istruire bambini napoletani presso famiglie contadine emiliane. Qui un pranzo e una cena si potevano rimediare con un po’ più di facilità. Qui gli effetti negativi della guerra erano meno evidenti.
A Napoli le condizioni sociali e ambientali erano davvero disastrose: tutto era andato distrutto sotto i bombardamenti. E così, in Emilia Romagna, più di settantamila bambini e ragazzi campani si salvarono dalla fame, dalle malattie, dall’analfabetismo.
Uno di questi bambini è Amerigo. La Ardone ci racconta la sua storia. L’incredibile storia di un bambino di soli sette anni. Amerigo sale su un treno, lui che su un treno non c’è mai stato e lascia sua madre, Antonietta, dalla quale non si è mai separato neanche un giorno.
Naturalmente, Amerigo vuole bene a sua madre ma riconosce che le carezze, come le parole, “non sono arte sua”. Il piccolo eroe deve anche fare i conti con la Pachiochia (accanita sostenitrice della monarchia); lei è asssolutamente contraria a questo viaggio perché “…finirai in Russia dove i bambini se li mangiano”.
Provate ad immaginare quindi lo stato d’animo di Amerigo alla partenza. Lui che conosce solo le strade del suo rione dove tutti sanno chi è “Nobèl” e dove abitano i suoi molti amici: uno fra i tanti, Tommasino.
Paura, smarrimento, nostalgia sono le emozioni che accompagnano Amerigo lungo il viaggio. Piano piano, però, tutto lascia spazio alla meraviglia (“piove ricotta dal cielo! e quanto fumo c’è su al nord!”) e alla curiosità.
A Modena il nostro protagonista imparerà cosa vuol dire sentirsi parte di una famiglia “larga”, un senso di comunità e cosa vuol dire avere dei fratelli (nel bene e nel male). Scoprirà cosa vuol dire ricevere affetto e cosa si prova a ricevere l’abbraccio di un papà. Ritornerà sui banchi di scuola, diritto di ogni bambino, e imparerà la musica (che sarà poi il suo destino).
Ma come l’incantesimo si dissolse per Cenerentola allo scoccar della mezzanotte, così per Amerigo arriva il momento di tornare a Napoli alla sua vita di sempre e con esso, il rendersi conto che lui non è più lo stesso, è cambiato…
Il suo desiderio di condividere ciò che ha visto, ciò che ha imparato, ciò che ha ricevuto, magari per donarlo a sua volta, è enorme.
Ma non viene capito, non viene ascoltato, in primis da chi l’ha costretto a quel cambiamento: la madre Antonietta. Per la vergogna di aver dovuto chiedere aiuto e per la paura di perdere un altro figlio, la donna continua a trincerarsi dietro un muro di silenzio. La dignità ha un enorme prezzo da pagare prima di arrivare al compromesso necessario. Come può sentirsi Amerigo in questa situazione?
Sono felice di aver concluso questo libro perché mi piace quando un testo tocca nel profondo della pancia così, con molteplici emozioni, e mi costringe a fermarmi e a farmi domande importanti per le quali non bastano risposte superficiali dettate dall’impulso del momento.
E’ un libro commovente, di una tenerezza, di una delicatezza infinita; è un libro a tratti buffo come buffo può essere il punto di vista di un bambino di fronte a determinate circostanze; è un libro profondo perché parla oltre che del rapporto tra madre e figlio, anche di eventi realmente accaduti che hanno segnato una pagina di grande solidarietà nella storia italiana.
E’ un libro sospeso. Qualcosa non viene detto, ma è lì e corrode e crea rabbia, risentimento, amarezza, malinconia per ciò che non è stato e poteva essere.
E’ un libro che porta con sé personaggi delineati in maniera magistrale dall’autrice: non si potrebbe fare a meno di nessuno di loro.
E’ un libro che, come un treno, si ferma e ti chiede: “Sali? Può essere che dove ti porto ci sia il tuo destino”.