Di Sandra De Bianchi
Che meraviglia i libri: ti permettono di indossare innumerevoli vesti, ti fanno raggiungere ogni dove (come una macchina del tempo), ti fanno provare sfumature infinite di emozioni che, talvolta, mutano e si contrappongono nello spazio di poche righe.
In alcune occasioni li chiudi sbuffando perché avresti voluto un finale diverso o avresti voluto ulteriori risposte alla grande quantità di domande che ti sono sorte e invece resti lì senza risposte (o forse con più di una, direbbe qualcuno). A volte li chiudi e sei soddisfatta perché ritieni che “era così che doveva andare” e magari sogni qualcosa di uguale o anche solo di simile per te.
Che meraviglia i libri: ti consentono di conoscere, capire, ti fanno riflettere e mettere in discussione, ti regalano occhiali diversi per cogliere nuovi punti di vista. Ed è questo che “Se fosse tuo figlio” (Rizzoli Editore) ha fatto con me: mi ha offerto dei nuovi occhiali per leggere una storia di cui, negli ultimi anni, abbiamo sentito raccontare molto spesso in tv e sui giornali.
Vi confesso che appena ho visto la copertina il mio pensiero è stato: “Uhhh… Mare, barca… Un po’ di musica, un mojito, gli amici, la sabbia soffice e bianca… Dove si va in viaggio sto giro?”.
E poi quel titolo che invece ti squarcia in due e ti risucchia in quel mare: no, il mio è un altro sogno, un altro viaggio. Questo è il viaggio che migliaia e più di uomini, donne, bambini non chiamerebbero in barca ma sul “barcone”, e vi assicuro che su quel barcone non c’è né musica, né mojito, né salvagenti o pavimenti raffinati. Anzi, è più probabile trovarci buchi dai quali si infiltra l’acqua del “mare mortale”, che non è di certo il mare accogliente e caldo che sogniamo dalla sedia del nostro ufficio d’inverno. Su quel barcone, quegli uomini, donne e bambini provengono da “luoghi incantati” che non hanno dato loro altra scelta che scappare perché hanno tolto loro tutto: diritti, dignità, speranza.
L’autore di questo pugno salutare nel mio stomaco è Nicolò Govoni, che ammetto di non conoscere, ma per fortuna qualcun altro ha ben notato (Sara Conti, membro del Consiglio Grande e Generale di San Marino), al punto da proporlo per la candidatura al premio Nobel per la Pace.
Nicolò ha 27 anni ed è originario di Cremona, dove ha vissuto con i nonni che l’hanno sempre incoraggiato (con la nonna in particolare il rapporto è speciale), al contrario della famiglia e di alcuni insegnanti che lo consideravano “una causa persa”.
La sua è un’adolescenza difficile: vive in un ambiente che gli sta stretto, in una società che considera sbagliata perché non valorizza l’individualità, i sogni di ciascuno, ma anzi vuole tutto “preconfezionato”, che tanto basta. Ma lui si sente vecchio e vuoto a vivere così: lui vuole cambiare le cose, vuole per sé una vita diversa.
Così, ventenne, parte come volontario e si reca in India presso l’orfanotrofio “Dayavu Boy’s Home” e per quattro anni vive lì aiutando, lavorando, imparando e provando a cambiare le sorti di chi è meno privilegiato. Si iscrive all’università e consegue la laurea in giornalismo e, oltre ad insegnare ai bambini del posto, inizia a scrivere. Con i proventi dei suoi libri non solo sponsorizza le varie iniziative educative in India, ma anche tutto ciò che successivamente crea a Samos, piccola isola della Grecia dove Nicolò approda nel 2017, sempre come volontario (perlomeno all’inizio).
Ed è lì che ci sarà il grande incontro: quello con Hammudi, ragazzino siriano che è “sfuggito alla guerra (perdendo il padre) e sopravvissuto al mare”.
Hammudi ha tante cicatrici ma il sorriso non l’ha ancora perso e Nicolò lotta perché quel sorriso e quello di tanti altri bambini che vivono nell’hotspot di Samos (luogo di degrado, sporcizia, violenza), non scompaia.
Lotta perché questi bambini possano godere anche di quelle cose che per noi sono scontate ormai: una pizza, un film al cinema, l’istruzione. Lotta perché tornino ad avere dignità, rispetto, diritti, sogni, un futuro, una speranza. Lotta per convincerli che meritano di più, che non è tutto brutto, che non c’è solo la guerra e la cattiveria, che non è colpa loro. E non lotta solo: lo fa con persone che come lui credono nella denuncia dei soprusi che vengono perpetrati dalle autorità greche sui profughi dell’hotspot, che come lui credono che la verità deve vincere, che insabbiare uccide persone, sogni, speranze, che queste persone hanno diritto ad un po’ di dignità e ad una vita migliore.
Il libro mi ha commosso (certo, è più semplice essere empatici con dei bambini, dirà qualcuno, e io non voglio entrare in dibattiti politici o credo personali): ho ammirato il coraggio di questo giovane ragazzo che avrebbe potuto scegliere mille altre vite e invece ha scelto “Still I Rise”, e ho sofferto per questi bambini perché, tranne che con la violenza, non sanno come difendersi. Nessuno ha insegnato loro altri modi. Talvolta nemmeno quella sanno usare, e finiscono per subire e basta, accettando il fatto che è giusto così perché loro sono la feccia. Ho sofferto perché davvero questi ragazzi smettono di avere speranza e finiscono per credere di non meritare di più, di essere sbagliati magari solo perché non vivono in Europa e hanno un colore della pelle diverso.
E quante di queste storie vere esistono nascoste chissà dove o anche a noi vicinissime, e noi proseguiamo con addosso gli occhiali oscurati? Ho pensato ai miei nipoti (grazie anche alla meravigliosa poesia di Sergio Guttilla che troverete nelle prime pagine del libro): e se ci fossero loro al posto di Hammudi? Posso fare qualcosa? Se non io, chi? Se non ora, quando?