"Una notte soltanto, Markovitch"

“Una notte soltanto, Markovitch” di Ayelet Gundar-Goshen

Di Doris Alberti

Ho scoperto “Una notte soltanto, Markovitch” di Ayelet Gundar-Goshen frequentando il gruppo di lettura tenuto da Patrizia Rossari per il Circolo dei Lettori di Verona lo scorso autunno.

Non l’ho letto subito, ma quel titolo è rimasto lì latente ed ora che l’ho terminato vedo in quella “notte soltanto”, eco di un’unica speranza, una delle possibili chiavi di lettura di questo romanzo che offre molti spunti di riflessione e piani di lettura diversi.

Il libro, edito da Giuntina nel 2015, è l’opera prima di una giovane scrittrice israeliana, Ayelet Gundar-Goshen, laureata in psicologia, impegnata nella lotta per i diritti civili del suo paese e vincitrice, con questo romanzo, del premio Sapir in Israele.

Chi è Markovitch? Yaakov Markovitch è un uomo all’apparenza insignificante che si sente una comparsa nelle storie degli altri, compresa quelle del suo unico amico Zeev Feinberg che rappresenta il suo opposto, sempre al centro dell’attenzione, con un’esuberanza straripante annunciata dai suoi mustacchi appariscenti. La loro però è un’amicizia vera, profonda, che con lo scorrere degli anni e le molte traversie che si troveranno ad affrontare rimarrà una delle poche certezze.

L’intreccio del romanzo prende il via negli anni che precedono la formazione dello Stato d’Israele (proclamato il 14 maggio 1948) da un’operazione organizzata dall’Irgun (gruppo paramilitare sionista operante durante il periodo del mandato britannico) a cui partecipano i due amici.

Zeev e Yaakov vengono spediti insieme ad altri giovani in Europa con lo scopo di sposare alcune donne ebree, dando loro la possibilità di rientrare in Israele, dove avrebbero immediatamente divorziato. Tutti lo faranno, tranne Yaakov Markovitch, che si rifiuterà di concedere a Bella il divorzio.

Bella (non solo di nome) e Sonia, l’unica donna amata da Zeev, sono le principali protagoniste femminili. Donne forti e caparbie con gli stessi incredibili occhi: alla giusta distanza quelli di Bella, un po’ troppo lontani quelli di Sonia.

Oltre a questi protagonisti, il libro è popolato da un folto numero di personaggi e moltissime sono le storie che si intrecciano con alcuni temi che diventano fili conduttori: il ruolo devastante del silenzio nei rapporti umani, il tormento di un segreto tenuto celato, il ricordo consapevole legato al pensiero e quello istintivo legato ai sensi, come il rumore di un cranio che sbatte per terra e si insinua nella testa di chi lo ha sentito senza che niente lo possa cancellare.

I sensi sono sollecitati in modo incisivo nel romanzo: le pagine sono pervase dal profumo della terra e soprattutto della pelle di Sonia che inebria con il suo sentore di arancia e poi quella di suo figlio che saprà di pesca.

E ad un un paese dalle estati torride si contrappone il gelo che pervade la casa di Yaakov dal momento in cui Bella vi mette piede. In nessun modo Yaakov riuscirà a riscaldarla ma per tanti anni continuerà a preferire l’odio di Bella all’indifferenza degli altri, il suo sguardo tagliente alla solitudine completa.

Tutto questo, anche i temi più crudi, sono raccontati dall’autrice con una scrittura leggera, semplice ma penetrante, con un filo di ironia e un piano narrativo che oscilla tra realismo e magia, richiamando per certi aspetti il filone della narrativa sudamericana ma con uno stile israeliano comune ad altri autori, come Meir Shalev ad esempio.

La guerra, con i suoi risvolti agghiaccianti, non molla mai la presa sulle vite dei protagonisti e il tema dell’identità israeliana è sempre vivo. Un ebreo fatica ad essere semplicemente sé stesso, si porta dietro inesorabilmente tutta la storia del suo popolo senza mai perdere la speranza.

Così la speranza di Yaakov di riuscire un giorno ad avere l’amore di Bella si accavalla e si attorciglia alla speranza del popolo ebraico. “E forse se spererò abbastanza, se spererò forte forte, la mia speranza diventerà una cosa vera. Guarda noi. Guarda questo paese. Sono duemila anni che speriamo, che l’aspettiamo abbracciati alla manica della camicia, perché cos’è la storia se non la manica di una camicia senza più odore.”

La speranza si scaglia contro la natura o si allea ad essa: Sonia impreca contro il mare, l’uragano e il vento che urlano nelle sue orecchie; il sole alla fine del libro, in un mattino dopo il quale niente sarà più come prima, ritarda il suo sorgere per dare un attimo di speranza in più a Yaacov e Sonia.

“Anche il pugno una volta era una mano aperta, e cinque dita.” La frase del poeta Yehuda Amichai trova la sua rivelazione negli ultimi, laceranti capitoli in cui quello che per il protagonista era stato un “no” per tutta la vita si trasforma in un “sì”, come il pugno che torna ad essere mano aperta, immagine forte di quell’unica speranza sillabata da due parole: amore e libertà.


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